THOMAS BERRA, ELISA BERTAGLIA, LINDA CARRARA, ALBERTO GIANFREDA, THOMAS SCALCO
Frammenti paesaggio

21 giugno 2021/27 novembre 2021
Inaugurazione: lunedì 21 giugno 2021 h.10.30

Frammenti paesaggio è il titolo della mostra collettiva allestita presso il prestigioso Palazzo Largo Augusto a Milano – sede del Gruppo Banca Sistema – che vede come protagonisti: Thomas Berra, Elisa Bertaglia, Linda Carrara, Alberto Gianfreda e Thomas Scalco.

In occasione dei 10 anni di Banca Sistema – fondata nel 2011 dall’Amministratore Delegato Gianluca Garbi – il progetto Banca SISTEMA ARTE, si propone in chiave differente con una collettiva di cinque artisti selezionati attraverso l’indagine approfondita della poetica di ben 35 giovani talentuosi che negli ultimi 10 anni sono stati protagonisti del progetto esponendo presso gli spazi del Gruppo.

I cinque artisti, che hanno dimostrato nel tempo una crescita professionale, sia in territorio nazionale che oltre confine, sono ora in dialogo attraverso una narrazione espositiva dalla quale si può apprezzare la poetica attuale a confronto con il precedente percorso accademico e di sperimentazione.

Frammenti paesaggio è l’espressione progettuale di una mostra distribuita dall’ingresso della prestigiosa sede di Palazzo Largo Augusto alle sale riunioni del settimo piano con vista a 360 gradi – da destra –: San Bernardino alle Ossa, Torre Velasca, Museo del 900 e Duomo. In questi luoghi – paesaggi per l’appunto – le opere contemporanee sono in sintonia tra di loro e in battuta diretta con i suggestivi profili delle opere architettoniche che disegnano lo skyline di Milano. Frammenti dunque come “pezzi” che in relazione gli uni con gli altri formano un unico brano, un momento lirico dal valore positivo e propositivo che, nella logica di sostegno del progetto di Banca Sistema, conferma l’impegno di offrire agli artisti strumenti di visibilità e supporto.

Curatorialmente si sceglie di dedicare a ciascun artista una sala in modo da creare “stanze site-specific” tali da poter concentrare l’attenzione sul singolo. Installazioni, pitture su tela, carta e disegno discorrono tra loro creando spontaneamente un percorso in cui inoltrarsi.

All’ingresso del Palazzo Largo Augusto ci troviamo immediatamente di fronte al grande dipinto di Thomas Berra: un trittico maestoso – 226×463 cm –, olio su tela raffigurante in primo piano sulla sinistra una pianta di colore bianco e, lungo la superficie, le sagome dei “suoi” pinocchi, figure allungate con il naso che protende, silhouette riconoscibili del lavoro di Berra. L’opera, che era stata esposta in occasione della mostra Casabarata del 2014, poi acquistata per la collezione privata di Banca Sistema, è oggi affiancata all’opera Helskini – attuale paese di residenza dell’artista – che mostra, e dimostra, la ricerca più recente.

Il piccolo dipinto, allestito su una colonna, è parte del ciclo Elogio delle Vagabonde, il cui tema è quello della vegetazione, con particolare attenzione alle piante che generalmente vengono definite come erbacce, in quanto infestanti e quindi da estirpare. L’ortica, il tarassaco, la penace di Mantegazzi, la porracchia Sudamericana, il fico d’India, il papavero sonnifero, il poligono del Giappone, l’erba della Pampas… i cui semi trasportati dal vento, o dagli animali, o dalle suole delle scarpe invadono erranti le nostre città conquistandole con forza e vitalità. Che siano dunque metropoli, giardini o terreni incolti, alle piante vagabonde spesso si vieta persino il diritto di esistenza. Ma sono davvero così pericolose? Berra le propone in nome della salvaguardia, della difesa della mescolanza planetaria, sostenendo la disuguaglianza e la diversità.

Proseguendo, scendendo le scale dell’ingresso, accanto a una vetrata geometrica, è impattante la grande tela verde dalla quale i segni gestuali delle erbe sembrano arrivare proprio dall’esterno, da un angolo della città su cui un’erba vagabonda ha posato i suoi semi. Dirimpetto, un dittico ne delinea lo spazio come un vero e proprio giardino.

Thomas Berra, fedele alla sua indagine, comprova ora la sua incessante attenzione verso la natura e verso il colore verde. L’assenza dei personaggi – dei pinocchi – è la conferma di una non necessità di inserire elementi nelle sue opere che sarebbero – oggi – estranei e invadenti. I suoi dipinti sono pittura, letteratura e botanica.

Al settimo piano incontriamo Alberto Gianfreda, scultore versatile che dedica i suoi studi e la sua ricerca all’analisi di temi associati alla resilienza e all’identità. La materia è una componente fondamentale delle sue opere e l’indagine di sistemi di assemblaggio mobile, che rendono irripetibili le forme e restituiscono all’installazione un valore inedito in uno specifico momento, sono una peculiarità del suo lavoro.

Varcando l’ingresso, sulla sinistra, notiamo l’opera Effimera: un tondo di diametro 120 cm, formato da un grande vaso – decorato con soggetti figurativi e floreali – prima distrutto a martellate e poi imbastito con rete metallica. Ed ecco come il supporto mobile ne conferisce la possibilità di trasformarsi nel tempo e nello spazio. Il fitto tessuto metallico di Effimera sostituisce alla morbidezza la pericolosità del frammento, delicatezza e dannoso si invertono. Ora, le relazioni tra i pezzetti, sono vincolate, ma instabili, pur definendosi in una forma apparentemente unitaria.

Proseguendo, in dialogo con Effimera, osserviamo le opere della serie Nothing as it seems: vasi cinesi, sempre spezzettati e poi riassemblati, in cui Gianfreda parte da un oggetto fortemente iconico come il vaso – transgenerazionale e transculturale – per giungere a un oggetto che, con le sue infinite forme, perde la sua funzione originale di contenere e si trasfigura, attraverso la distruzione, in un nuovo manufatto. Ciononostante il nostro occhio non smetterà di riconoscerlo. L’artista pone dunque una riflessione sulla mobilità della forma in rovina e trasforma i valori dell’oggetto iniziale. Nothing as it seems ribalta così tutti i valori, compreso quello di distruzione come fine, in favore dell’adattamento dell’icona come possibilità di esistere. In Nothing as it seems è inoltre presente una dimensione ironica che rimanda in maniera evidente a opere di artisti contemporanei come Ai Wei Wei, ma ricostruendo ciò che è stato distrutto nel decennio precedente.

Cocci di vasi convivono con la grande installazione: 12+1 gambe di tavolo rovesciate e 1 cielo, opera della collezione privata di Banca Sistema che mette in luce l’evoluzione della ricerca dell’artista. Esposta in occasione della mostra Earthquake nel 2014, la scultura è costituita da 12 gambe di tavolo in legno più 1 capovolta, e una serie di fasce rivestite in tessuti lampasso, un tessuto sontuoso e pregiato, i cui disegni e trame in oro e argento farebbero pensare all’arte barocca: il lampasso, in realtà, ha conosciuto il suo più grande successo nel XVI secolo, nonostante le sue origini risalgono ad un’epoca ancora più antica, il X secolo. In questo angolo, tra culture ed epoche differenti, ancora una volta l’inganno visivo di Gianfreda è protagonista.

Linda Carrara, dedita alla pittura, si propone nella Sala Mercurio con un percorso di lavori che coprono un lasso di tempo che inizia nel 2013 – anno della mostra Linda Carrara negli spazi di Banca Sistema – fino a oggi. Sono cinque le opere che contiamo all’interno della stanza. Al primo sguardo percepiamo una diversità formale e pittorica, ma ben presto notiamo che la materia della natura, che si vede fuori dalla finestra del Palazzo Largo Augusto si ritrova nello “studio di paesaggio” che l’artista ha iniziato nel 2020.

Outerspace, il grande dipinto allestito sulla parete immediatamente a sinistra, è come uno zoom della stanza. L’opera realizzata nel 2013 sembra un ritaglio reale della Sala Mercurio. La grande vetrata che si affaccia su Milano prosegue sulla tela e le linee nere, nette e verticali, creano un naturale gioco ottico, virtuoso di una ricerca pittorica che nel corso del tempo ha individuato e analizzato gli elementi del paesaggio. Dall’interno all’esterno. E dall’esterno all’interno.

In dialogo antitetico, i frottage, posti di fronte al grande dipinto, dimostrano l’attenzione dell’artista verso il paesaggio ed è come se fossero un primissimo piano della natura dalla finestra. Il trittico – dal titolo La prima passeggiata – e l’ultima produzione dell’artista in cui possiamo osservare nuovamente come l’oggetto sia il pretesto della sua pittura. Dal nome Mercurio l’artista trova spunto per realizzare i tre lavori che per forma, colore e significato risultano nella stanza dettagli indispensabili per una lettura completa del progetto.

Incontriamo un altro piccolo elemento molto prezioso all’interno della sala: l’opera Floating object. Un sassolino sospeso nel vuoto – realizzato ad acrilico e grafite su tavola di legno – che fluttua con leggerezza come se dovesse spaziare da un luogo a un altro senza alcuna spiegazione. Lo scorcio di una stanza, il dettaglio di un territorio e un elemento sospeso, tutti perfettamente in dialogo tra di loro e con la vista del paesaggio metropolitano.

Così, anche Natura Morta – il grande dipinto in collezione di Banca Sistema, esposto nel 2013 in occasione della mostra intitolata Linda Carrara – raffigurante una Moleskine in scala smisuratamente moltiplicata, è un motivo di pittura e lo studio di un ulteriore oggetto del tutto dialogico con la ricerca corrente.

Nella Sala Diana Thomas Scalco è presente con due cicli di opere: Hercafàlia e Frammenti.

Il primo – Hercafàlia – rappresenta le cavità. Il tema della grotta nel lavoro di Scalco ha fatto la sua apparizione solo da alcuni anni, quasi casualmente, diventando poi essenziale per il suo intenso valore simbolico. La grotta, emblema delle profondità, di un percorso che idealmente può condurci sino al centro della terra, viene ripresa come metafora di un viaggio conoscitivo nel quale l’incontro con l’ombra avvolgente diviene, attenuando e alterando le nostre facoltà percettive, il mezzo per un viaggio in luoghi magici e indissolubilmente legati all’introspezione.  Apparentemente in antitesi col brano Platonico, si tratta semmai solo del cambio di un punto di vista, dato che ciò che è sotteso è la ricerca di una maggior chiarezza, di una visione più limpida: il passare dalla luce accecante all’ombra si manifesta come la possibilità di recuperare molto di ciò che era celato nell’oscurità e di tornare poi alla luce vedendola con maggior chiarezza.

Il secondo ciclo, Frammenti, è invece iniziato nel 2018 e il titolo si riferisce visivamente e semanticamente alla modalità del componimento, e filosoficamente alla raccolta dei pensieri eraclitei. La serie di carte ha come interesse evocare il legame tra il singolo e il plurimo, in un gioco di rapporti che passa dalle forme al gesto pittorico, sino alle tinte coinvolte. Il tutto parte da grandi fogli dipinti a olio e acrilico con una pittura informale, un richiamo alla prima fase di realizzazione delle opere su tela, a cui segue poi un lavoro sulla forma, tra pieghe, tagli ed incisioni. I residui di questa fase, simili a pezzetti marmorei, riprendono forma unendosi in un processo che rimanda alla mente le tecniche del mosaico e dell’intarsio.  Nel caso dei collage numerose figure prendono corpo, ognuna caratterizzata da un accenno di individualità, ma in fondo tutte composte della medesima materia in proporzioni differenti, come avviene, in un certo senso, in natura. L’energia che tramite la pittura si manifesta liberamente creando ambienti, anfratti, e volte nel caso dei dipinti esposti, nella serie dei collage viene costretta entro limiti prestabiliti. Infatti, si intuisce la gestualità di graffi e pennellate, racchiuse all’interno di forme geometriche irregolari, fuse le une alle altre.  Nel caso della serie realizzata per la mostra di Banca Sistema, Scalco ha cercato di introdurre in quasi tutti gli elementi dei piccoli frammenti verde-blu in relazione con le colorazioni dei dipinti esposti a fronte – i vasi cinesi di Alberto Gianfreda – creando un ulteriore, seppur tenue, rimando.

Ed è parlando di richiami che non si può non citare l’opera Monochromo del 2015 – esposta in occasione della mostra Ossimori dello stesso anno, e attualmente posizionata all’ingresso del Palazzo Largo Augusto – dove possiamo riconoscere diverse delle sopracitate attenzioni dell’artista: gli elementi geometrici come frammenti e le pennellate dense e scure che citano le grotte.

Elisa Bertaglia è l’artista interprete della Sala Giove. Tra disegni su carta e pittura su tela l’artista presenta per questa mostra opere inedite appartenenti a due cicli fondamentali per mostrare gli sviluppi recenti della sua ricerca pittorica.

Entrando nella sala, sulla parete di destra, lo sguardo si imbatte su una grande tela e una serie di piccoli dipinti. La grande tela, il pezzo principale della sua ultima produzione, ha come titolo Hic sunt Dracones ed è un dipinto realizzato a olio, carboncino e grafite su tela, con due leggerissimi inserti ad acquerello su seta. L’opera – analogamente alla serie Singing over the Bones cui si ricollega per analogie non solo tematiche ma anche formali – vede sviluppare una narrazione su due piani: quello pittorico, fatto di una raffinata variazione di bruni, grigi, neri, blu, viola e aranci; e quello grafico, costituito da un ricco intarsio di ramificazioni e foglie lanceolate disegnate a grafite. A differenza di opere antecedenti – come quelle della serie Metamorphosis esposte nel 2014 in occasione della mostra Bindwood allestita presso Banca Sistema – per la prima volta si tratta di un paesaggio. Lo scenario appare privo di personaggi, non ci sono bambine (o bambini) imbrigliate tra i rami della vegetazione, non ci sono corpi nascosti tra le fronde arboree, né tuffatrici sospese nel vuoto. Ma ‘l’io’ è comunque presente nel titolo. Hic sunt dracones (qui ci sono i draghi) fa riferimento alle antiche mappe cartografiche – come ad esempio in uno dei mappamondi più antichi conservato oggi alla New York Public Library – quando nel ‘500 era consuetudine frapporre questa scritta ai margini tra le aree conosciute e quelle ancora da esplorare, che nell’immaginario comune erano popolate da draghi, animali fantastici e figure mitologiche. Il titolo, dunque, riporta la visione paesaggistica ad una dimensione simbolica e filosofica, propria di un paesaggio immaginario, fantastico e onirico. È quindi questo un paesaggio costruito sulla soglia, sul margine, nel luogo proprio dell’incontro tra opposti, tra elementi dualistici. Il luogo stesso della metamorfosi.

Le opere di piccolo formato, invece, fanno perlopiù parte della serie Brambles, e anch’esse sono tutte inedite e realizzate durante gli ultimi mesi. Alcune rappresentano tormentati paesaggi vulcanici, fatti di esplosioni e colature fluorescenti di colore ad olio e minuti disegni a carboncino e grafite; altre, si fondano sul ritmo armonico di foglie dalle forme appuntite e colori diafani. Brambles, letteralmente rovi, richiama un elemento vegetale attraente e spinoso, catalizzatore anch’esso di concetti ambivalenti e plurali.

Natura e città si incontrano attraverso le grandi vetrate della Sala Giove, Elisa Bertaglia si pone come compendio di uno scenario ora assoluto e completo.

This post is also available in: Inglese