DANIELA NOVELLO e PATRIZIA NOVELLO
Tell me the Story

5 ottobre 2019/30 novembre 2019
Inaugurazione: sabato 5 ottobre 2019 h.18

TELL ME THE STORY
Cristina Muccioli

Per raccontare due artiste, due poetiche espressive tanto diverse (e per questo dialoganti), ne occorre un terzo. Per unire quattro punti disposti a configurare un quadrato con tre linee soltanto, occorre uscire dal perimetro prefigurato.

La mia linea di fuga di chiama J. W. Turner. In particolare, guardando sia i lavori di Patrizia, sia quelli di Daniela Novello, un’opera mi è venuta in soccorso interpretativo. È The Fighting Temeraire, del 1839. Il titolo allude alla gagliardia eroica di un combattente valoroso, e vittorioso. Nel quadro, invece, la maestosa Temeraire, che fece vincere alla flotta britannica la battaglia di Trafalgar, è trascinata da un rimorchiatore come presenza spettrale, surreale. Tutta bianca, completamente vuota, scivola sulle acque opache di un affollato Tamigi al seguito di una macchia colorata e imbiondita dal sole, col suo sbuffo energico di vapore nerastro, emblema della nuova società del carbone, delle macchine. Il grande guerriero ligneo che ascoltava i venti, la forza delle braccia, la sapienza dei timonieri che col mare scendevano a patti, la possanza elegante delle vele spiegate, è già ricordo, già ombra di sé. Sta per essere smontato, asse per asse, in un cantiere navale. Cinquemila querce del suo ponte, del suo ventre, della prua e della poppa, degli alberi maestri, sono su questa tela il brillio fugace, l’incantesimo di luce di un’apparizione che sta per svanire.

Candido e omogeneo è il colore dei muri dello spazio di Martina Corbetta, che deve licenziare allestimenti precedenti per esporre il nuovo, ritualizzare assenza per indire la presenza. Torneremo a Turner, ma al momento pare di poter captare, intuire qualcosa del linguaggio non verbale, non linguistico di chi esprime artisticamente l’assenza: la chiarità fantasmatica, il vuoto allagato di bianco di qualcosa, di qualcuno che è stato presenza viva e palpitante, è cifra cromatica del ‘non più’ e del ‘non ancora’ su tela. Compaiono anche scritte, nei dipinti a briglia sciolta di Patrizia, di chi ha anni, e anni, e calli sulle dita del cuore per l’uso sempre più sapiente del pennello: That day we met, per esempio, con uno svolo, come di piume grigiazzurre scompigliate, vaporose e sommosse, compenetrate, entropiche, scalzate verso l’alto dall’avanzata lattiginosa, densa, inarrestabile del tempo che si mette in mezzo a un incontro, al momento, al giorno esatto in cui qualcosa di decisivo nella nostra esistenza, ha avuto inizio, nascita, luogo. Sigillati in un silenzio rigoroso, inaggirabile, definitivo sono i lavori scultorei di Daniela. Predilige il piombo. Lo modella come Efesto faceva col bronzo. Altrove si scopre la fragranza porosa della pietra calcarea che si fa di pane, di mollica e alveoli, di crosta e lievitazione. Qui, invece, l’occhio e il tatto sono convocati in una lettura parimerito svelativa di levigatezza e intaglio, di sagoma precisa e ricamo inciso dalla minuzia lenticolare di un antico orafo. I fiori orientaleggianti sul tubino femminile, smanicato e sbarazzino, contraddetto dalla severità del colore, dal suo essere indisponibile allo spiegazzamento, al compromesso espositivo; a segno di certi ricordi che, soli, sanno tornare perfettamente intatti. Le persone, gli amori, gli affetti più intensi, sono fatti di carne, hanno occupato uno spazio, sono stati vestiti e svestiti, si sono circondati di oggetti comuni come un armadio, un tappeto, cose così: semplici e quotidiane scenografie della nostra vita concreta, agita e subita. Vissuta e incisa, a nostra insaputa, nella memoria. La memoria è involontaria, e l’arte è un’archeologa che si fa carico di dare voce e sembianza fisica ai suoi reperti mnestici. Tutto intorno alle sculture è alterità assoluta. Un corpo, scultoreo o no, inizia e finisce. Largo tot, alto tot. Non di più, non di meno. I corpi hanno misura. I ricordi, le narrazioni, sono smisurati, sfuggenti, travisati, ingigantiti o sminuiti. La scultura di Daniela, il suo gesto di tagliare ampie superfici di metallo secondo un disegno preciso, fa due cose essenziali. La prima è che rende tridimensionale, tattile e visibile in non visto, l’interiorità più afona e invisibile. La seconda è che nella accogliente, quasi dimessa quotidianità del suo ricreare ambienti e abiti, trova l’Unheimlich di freudiana memoria, il perturbante, lo Heimlich che convive con l’Un; il famigliare rassicurante che vive con e nel suo contrario. Perché l’assenza è l’intruso, la freddezza, lo strappo, l’innaturalità delle nostre biografie nate e cresciute nel segno della relazione. Solo la bellezza – senza se e senza ma – accurata fin nella singola frangia di un tappeto o nel perno dell’anta di un mobile ci rende sopportabile, affrontabile l’assenza. Quale vittoria, quale smacco per lei poter essere guardata in faccia, nei suoi mille possibili volti, ed essere ammirata invece che soltanto sofferta e temuta! Tutte le opere di queste due artiste trovano luogo (in) comune nel titolo Tell me the story. Noi, da soli, non possiamo dirci. Non possiamo spiegarci. Non possiamo neanche darci identità, né nome, a partire dalla sua imposizione alla nostra nascita. Siamo stati invitati a entrare nel mondo. Lì, qui anzi, sono gli altri a raccontarci di noi stessi. A dirci, istituzionalmente o no, che siamo pittori e scultori, o altro. A dirci che siamo non solo amati, ma anche amanti. Che siamo desiderati e desideranti. Scontri, riscontri, percezioni, donazioni di senso e restituzione di senso ogni volta più compiuto.

Nessuna opera vive senza lo sguardo di un fruitore. Uno sguardo che si fa emozione, pensiero, riflessione, nome, associazione mentale. Le opere ci raccontano di noi, quando ci attraversano, quando facciamo spazio, quando creiamo assenza per accoglierle. A patto che noi troviamo parole per dire loro la loro storia, ci diranno la nostra. In fondo, la Fighting Temerarire è rimasta, anche dopo lo smembramento della sua carcassa. E noi le raccontiamo la sua storia, facendola nostra.

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